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Immagine del redattoreRodolfo Felici

Intervista a Tony Vaccaro, il grande fotografo di guerra e moda che ha sconfitto il covid a 98 anni

Aggiornamento: 28 set 2020



È un enorme onore ospitare su queste pagine una intervista a Tony Vaccaro, un uomo straordinario.


Originario del Molise, Tony Vaccaro si trasferì a 16 anni in America. A 21 anni tornò in europa per combattere nella Seconda Guerra Mondiale nella 83ª divisione di fanteria. Attraversò Normandia, Belgio, Lussemburgo e Germania fra il 1944 e il 1945. In qualità di scout, ossia esploratore con compiti di ricognizione, oltre al fucile gli era stata fornita in dotazione una fotocamera molto economica e diffusa in quegli anni. Si trattava di una fotocamera a telemetro Argus C3, soprannominata “the brick” per via del design singolare (forma e dimensioni ricordavano quelli di un mattone). Con quella macchina scattò migliaia di foto, sviluppandole al fronte in condizioni estreme.

Michelantonio Celestino Onofrio Vaccaro (in arte Tony) raccolse i chimici e la pellicola a lui necessari dai negozi di fotografia distrutti che incontrò sul percorso durante l’avanzata. Sviluppava le pellicole di notte, aiutandosi con una coperta e tre elmetti utilizzati come recipienti per i bagni chimici. Le pellicole sviluppate venivano poi strettamente arrotolate in una grande bobina, custodita in un contenitore di latta per pellicole cinematografiche recuperato in un cinema abbandonato. Tony portò con sé nel suo zaino quella bobina di pellicola per tutta l’avanzata, combattendo letteralmente con il suo archivio sulle spalle. Molti fotogrammi recano impresse sulla superficie i segni di quel viaggio e di quegli sviluppi improvvisati, e giustamente Tony ritiene che quelle cicatrici facciano parte della storia quanto le stesse immagini rappresentate.

Dopo il suo ritorno negli Stati Uniti lavorò per Flair e Look, e in seguito per Life. Nel 1963 sposò la modella finlandese Anja Kyllikki Vaccaro, conosciuta durante un servizio fotografico per Marimekko (una nota casa di moda finlandese) per Life. Dal loro matrimonio nacquero due figli, Frank e David.

Tony ha continuato a viaggiare in Italia per tutta la sua vita, privilegiando in particolare Roma e il suo paese natio, Bonefro, dove vi è un museo a lui dedicato. Nel 1969 ha vinto la medaglia d’oro nel World Press Photo, e recentemente HBO ha realizzato un documentario sulla sua vita:“Under Fire: The untold story of Pfc. Tony Vaccaro.”


Ma le avventure nella vita di Tony Vaccaro non finiscono qui. A 98 anni ha combattuto (e vinto) un’altra importantissima battaglia: quella contro il Covid-19.


Ad aprile, durante del lockdown, avevamo contattato il figlio, Frank Vaccaro (che ringraziamo infinitamente per la cortesia e la disponibilità) a cui abbiamo chiesto di sottoporre a suo padre alcune domande.

Per due mesi le comunicazioni con Frank si sono interrotte, ma non sapevamo il perché. Una mattina lo abbiamo scoperto leggendo i titoli di una agenzia di stampa: Tony Vaccaro stava combattendo con il Covid, che aveva contratto a New York.

Domenica scorsa abbiamo ricevuto una lunga e commovente email di Frank con una splendida notizia. Suo padre aveva sconfitto il virus, diventando una delle persone più longeve al mondo ad aver vinto questa terribile battaglia!

Tony è tornato a casa, dopo qualche giorno si è risvegliato nel suo letto, si è fatto la barba ed ha risposto alle domande che gli avevamo inviato.

Siamo infinitamente grati a Tony e a Frank per aver trovato il tempo e la forza di rispondere alle nostre domande nonostante il momento di grandissima difficoltà, e gli facciamo i nostri migliori auguri.



A seguire vi riportiamo le domande, e le risposte così come le abbiamo ricevute.

 

Mr. Vaccaro, è un grande onore per noi avere l'opportunità di porle queste domande.

Ho avuto modo di vedere il suo lavoro nel 2009, in occasione della mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma. Le condizioni in cui ha scattato e sviluppato le sue immagini durante il secondo conflitto mondiale sono assolutamente fuori dall'ordinario, e il suo lavoro è il risultato di una incredibile tenacia e forza di volontà.

Cosa l’ha spinta, in situazioni di estremo pericolo che possiamo solamente immaginare, a trovare la forza di documentare ciò che stava vivendo? E' stato il desiderio di raccontare alle generazioni future gli orrori della guerra? O forse continuare a vivere la passione per la fotografia anche in condizioni di guerra è stato un modo per sentirsi umani nonostante le circostanze?

Tony: E' stato per il desiderio di raccontare alle future generazioni quanto sia disumana la guerra.


Potrebbe per favore raccontare ai nostri lettori quali incredibili difficoltà tecniche ha dovuto affrontare in zona di guerra per trovare la pellicola ed i chimici necessari per lo sviluppo, e successivamente per riportare a casa la pellicola?

Immagino sia stato particolarmente pericoloso trasportare una bobina di nitrato di cellulosa altamente infiammabile in uno zaino in un contesto di guerra. Ha affrontato questi rischi per un dovere verso sé stesso, per la posterità o per l’esercito?


Tony: “Non ricordo i rischi. Io ero il fotografo. Il mio comandante mi disse di sparare per prima cosa, e poi di scattare foto, e questo è ciò che ho fatto. Mio figlio a volte si arrabbia con me vedendo alcune delle foto. E’ nato venti anni dopo la fine della guerra, e dice che se mi avessero ucciso lui non sarebbe esistito.

Sviluppavo la pellicola di notte, appendevo un cavo fra due alberi per fare asciugare i negativi di notte, dopo averli immersi nei chimici che avevo miscelato negli elmetti dei miei commilitoni. Utilizzavo i chimici che trovavo nei negozi di fotografia distrutti lungo la marcia attraverso l’Europa. La prima volta presi in prestito quattro elmetti, e l’uomo di cui utilizzavo l’elmetto per il fissaggio (trisolfato di ammonio) si arrabbiò con me perché il suo elmetto divenne puzzolente. Perciò, per il resto della guerra indossai io il suo elmetto puzzolente!

Ho una foto del comandante di un carro nazista in fiamme. Per fare quella foto mi dovetti voltare, fui colpito alle spalle dal cannone calibro da 50mm e venni sbalzato sopra al corpo del nazista in fiamme. Sento ancora l’odore della sua carne. Stava piangendo per sua madre, poi morì. Il mio viso finì contro la fibbia della sua cintura: c’era scritto “Got mit uns” (Dio è con noi) su quella fibbia.

Ci fu una battaglia per una fattoria, nella valle di Rhineland, in cui non utilizzai la mia arma. Seguii gli spostamenti della G.I. (ground infantry, termine utilizzato per la fanteria semplice, NDT), che si spostava pietra dopo pietra, finendo per rifugiarsi dietro ad un carro armato. Per tutto il tempo li ho seguiti scattando fotografie. Pensavo che avrei dovuto riporre la macchina fotografica ed imbracciare il fucile, se fossero rimasti uccisi. Ho sempre nascosto quelle foto, pensando che se il mio comandante le avesse viste mi avrebbe arrestato.


Come è nato il suo amore per la fotografia?


Tony: “Nell’autunno del 1941 il mio insegnante di scienze, Bertram Lewis, alla Isaac E Young High School, New Rochelle, mi insegnò fotografia. A quel tempo scattavamo le fotografie all’aperto e poi le sviluppavamo in camera oscura. Non scorderò mai la sensazione di vedere la mia visione impressa dalla luce per l’eternità. Sono sempre stato in cerca della bellezza: una ricerca delle cose per cui valga la pena vivere. Si tratta di questo”.


Dopo la guerra, lavorando per Flair, Look e Life ha potuto fotografare alcune delle più affascinanti donne del mondo, ed ha conosciuto sua moglie lavorando per Marimekko. E’ stata una occasione per voltare pagina rispetto a ciò che aveva vissuto durante la guerra? Ha ricercato attivamente quel cambiamento o avvenne casualmente?


Tony: “Nel settembre del 1949 mi trovavo a San Diego. Ero un veterano della seconda guerra mondiale, e dopo la guerra desideravo viaggiare per l’America per conoscere meglio il paese per cui avevo combattuto. Ti ricordo che sono nato in Pennsylvania, ma sono cresciuto in Italia dall’età di due anni fino a quando ne avevo sedici. Perciò mi trovavo a San Diego, in visita a mia cugina, Michelina D’Onofrio (ho dimenticato il nome dell’americano che sposò), quando vidi la copertina della rivista Newsweek. Sulla copertina c’era Fleur Cowles. C’era scritto: “è lei la più importante magazine editor?”

Dissi a me stesso che dovevo lavorare per lei. Avevo solamente 38$ ed avrei dovuto guidare per 3.000 miglia. Comprai un cesto di mele per 3$ e lo misi sul sedile posteriore. Tutto quel che mangiai per tre giorni furono le mele. Il resto dei soldi lo spesi per la benzina, ma terminai soldi e benzina a Fort Lee, nel New Jersey. Parcheggiai la macchina ed attraversai a piedi il grande George Washington Bridge.

Il George Washington Bridge, il ponte che Tony attraversò a piedi per arrivare agli uffici di Look.

Camminai verso casa di mio zio a New Rochelle dove soggiornavo, e stampai 40 delle mie migliori foto di guerra. Andai a cercare Fleur Cowles nel suo ufficio alla 52a strada senza un appuntamento.

Lei si trovava al 14° piano dell’edificio di Look Magazine, al 488 di Madison Avenue. Quando entrai nel suo ufficio misi le stampe di guerra sulla scrivania della sua segretaria. Dovevo usare il bagno. Quando tornai una donna aveva già aperto la scatola con le mie foto e le stava osservando.

Mi chiese “sei tu l’uomo che ha scattato queste fotografie”? Le risposi di si.

Stava tenendo in mano una foto che oggi si chiama “White Death”. Mi disse: “saresti capace di scattare fotografie di moda come QUESTA?”.

Non ne avevo idea, ma le risposi di si.

Quella donna era Fleur Cowles. Mi assunse all’istante. Il giorno successivo mi trovai a scattare foto alle modelle sulla 5a strada. Arthur Rothstein era il suo foto editor. Arthur ed io lavorammo fianco a fianco per i 22 anni successivi. Eravamo come una famiglia. E’ morto nel 1985, ma sono un grande amico di sua figlia, Annie Rothstein-Segan. E’ venuta a farmi visita la settimana scorsa. E’ stata la prima ospite del mio studio da quando ha avuto inizio la faccenda del coronavirus.

(nota del figlio Frank: “al momento lo studio e gli archivi di Tony sono chiusi dal 14 Febbraio 2020. Tutti i collaboratori sono al momento in smartworking).


Molti hanno la sensazione che l’era (fra il 1950 ed il 1973) in cui hai lavorato come fotografo di moda e di celebrità sia stata un’epoca d’oro per la fotografia (e non solo, anche per le arti, la musica, il cinema, il design, la moda…). C’è una grande nostalgia per quell’era nonostante molti non l’abbiano vissuta direttamente, ma solo attraverso le immagini. In quegli anni avevi l’impressione di vivere in un’epoca d’oro?


Sì.

Ricordo di non aver mai preso un giorno di pausa, mai una vacanza. Fleur era con me. Il suo contratto di divorzio con Mike Cowles (1954?) prevedeva che non avrebbe dovuto perdere il suo lavoro di editor a Look, perciò mi tenne con lei per 22 anni.

Un giorno eravamo in ufficio pensando a voce alta. Era il 1954. Dissi “facciamo una storia sullo Shah dell’Iran”. Lei mi rispose: “Mi piace! Possiamo fare anche Nassar ed il re della Grecia”.

Fleur si occupò dell’organizzazione e a Maggio eravamo in viaggio.


Che responsabilità ritieni che abbiano i fotografi in questo difficile periodo che stiamo attraversando? Dovremmo utilizzare la fotografia per raccontare ai posteri il periodo che stiamo vivendo o semplicemente metabolizzare il cambiamento?


Ho scattato una foto ieri della gente nella mia strada con indosso le mascherine. Per me è la documentazione del nostro tempo e luogo, non c’è alcuna differenza dal mio lavoro nella seconda guerra mondiale. Si tratta di un tempo speciale. Ci chiediamo se il mondo tornerà alla normalità. Ci chiediamo cosa sarà normale. Io non lo so, ma ho bisogno di documentare queste maschere. Ho bisogno di documentare queste maschere per i cittadini del futuro. Spero un giorno di poter tornare a mangiare ad un ristorante.

Io non so nulla del cambiamento, ma so - spero - che le mie foto saranno di aiuto quando la gente chiederà quel cambiamento.


In fede,

Michael A. “Tony” Vaccaro

con il figlio Frank Vaccaro


 

E' possibile ammirare molte delle fotografie scattate da Tony Vaccaro sul sito di Getty Images al seguente link:

oppure sul sito del suo studio fotografico:




A seguire il testo originale dell'intervista.

__________________________________


Mr. Vaccaro, it is a great honor for us to be able to ask you these questions.

I got to see your work in 2009, on the occasion of his exhibition at the Scuderie del Quirinale in Rome.

The conditions in which he shot and developed his images in World War II are absolutely extraordinary, your work il the result of an incredible tenacity and willpower.

What pushed you, in a situation of extreme danger that we can only imagine, to find the strength to document what you were experiencing? Was it the desire to tell future generations about the horror of war? Or maybe continuing to listen to the passion for photography even in war was a way to continue feeling alive despite the circumstances?

Tony: "It was the desire to tell future generations of the inhumanity of war."

Could you please tell our readers once again what incredible technical difficulties you had to face in the war zone to find the film and the chemists for development, and subsequently to develop and bring home the film? I suppose it was very dangerous to carry a highly flammable cellulose nitrate film spool in a backpack inside of a war situation. Have you faced these risks for a duty towards yourself, for posterity or for the army?


Tony: "I don't remember the risks. I was the photographer. My commander said to shoot first and then take photos, and that's what I did. My son is upset at me for some of the pictures he sees. He was born 20 years after the end of the war. He says that if I died, he wouldn't exist. I fixed the film at night in the field. I hung a string between trees to dry the negatives at night, after dipping them in chemicals that I mixed in the helmets of my fellow soldiers. I used chemicals that I found in destroyed photographic stores through Europe. The first time I borrowed four helmets, the man whose helmet I used for the "hypo" (ammonium thiosulfate) was mad at me because his helmet became stinky. So for most of the war, I wore the stinky helmet!

I have a photograph of the burning Nazi tank commander. For that photo I had to turn around, and my back faced the enemy. I was shot at with a mounted 50 caliber weapon and jumped on top of the burning Nazi. I could smell his flesh. He was crying for his mother, then he died. My face was against his belt buckle: "Got mit uns" (God is with us.) was written on his buckle.

There was one fight, in the Rhineland valley, for a farmhouse, where I did not use my weapon. I followed the GI's as they moved from rock to rock, then they ran behind a tank: the whole time I was following them clicking photographs. I thought I would put down the camera, and pick up my rifle, if they died. I always hid those photos. I thought that if my commander ever saw them, that he would me arrested.

How was your love for photography born?

Tony: "In the Fall of 1941, my science teacher, Bertram Lewis, at Isaac E Young High School, New Rochelle, taught us photography. Back then it was taking pictures outside, and then developing your own pictures in the darkroom. I'll never forget the feeling of seeing my visions engraved by light for eternity. I had always been on the search for beauty: a search for the things that make life worth living. This was it.

After the war, working for Flair, Look and Life you photographed some of the most beautiful women in the world, and you met your wife working for Marimekko. Was it a way to turn the page over what you had experienced in the war? Did you seek that change or did it come by itself?


Tony: "In September of 1949 I was in San Diego. I was a veteran of WWII, and after the war I wanted to drive around America and get to know the country I fought for. Remember, I was born in Pennsylvania, but grew up in Italy from the ages of 2 to 16. So I was in San Diego, visiting my cousin, Michelina D'Onofrio. (I forgot the name of the American she married) and I saw the cover of Newsweek Magazine. Fleur Cowles was on the cover. It said: "Is she the greatest magazine editor?"

I said to myself that I needed to work for her. I had about $38 dollars and I was about to drive 3,000 miles. I bought a bushel of apples for $3, and put itr in the back seat. All I ate for three days was apples. The rest of the money was for gas, but I ran out of gas and money in Fort Lee, New Jersey. I parked the car and walked across the big George Washington Bridge. I walked to my uncle's home in New Rochelle where I was staying, and I printed up about 40 of my best war pictures. I went in to see Fleur Cowles at her 52nd Street office without an appointment.

She was on the 14th floor of the Look Magazine building: 488 Madison Avenue. When I got to her office, I put my war prints on the counter in front of her secretary. I had to use the bathroom. When I was finished with the bathroom, I returned to the office, and a woman had opened my box of photos and was looking through them.

She asked me: "are you the man who took these photographs?"

I said "Yes."

She held up a photo that today is called "White Death". She said: "Can you take fashion photos like THIS?"

I had no idea if I could. I said: "Yes."

She was Fleur Cowles. She hired me on the spot. The next day I was shooting models on Fifth Avenue. Arthur Rothstein was her photo editor. Arthur and I worked closely together for the next 22 years. He became like family. He passed away in 1985, but I am great friends with his daughter, Annie Rothstein-Segan. She visited me last week. She was the first visitor to my studio since this whole coronavirus thing started.

(Son Frank: "Tony's photo studio and archives has been shut down since February 14, 2020. All employees are still laid off, and we are considering remote work from home.")


Some believe that the era (from 1950 until 1973) in which you worked as a fashion and celebrity photographer was a golden age for photography (and not only, also for the arts, music, cinema, design, fashion ...). There is a great nostalgia for that era also by those who did not experience it directly, but only through images.In those years, did you have the impression of living in a golden age?

Yes.

I remember never taking a day off. I never took a vacation. Fleur was with me. Her divorce paperwaork with Mike Cowles (1954?) stipulated that she would not lose her editing job at Look, so she kept me for 22 years.

One day we were sitting in the office thinking out loud. It was 1954. I said: "Let's do a story on the Shah of Iran."

She said: "I like it. We can do Nassar and the King of Greece too."

Fleur made the arrangements, and by May we were off.

What responsibilities do you think photographers have in the difficult period we are all going through? Should we use photography to tell posterity about this period or simply to metabolize change?

I took a photo yesterday of the people on my street who were wearing masks. For me it is the documentation of our time and place - no different from my work during WWII. This is a special time. We ask if the world will ever be normal again. We ask what normal will be.

I do not know. But I need to document these masks. I need to document these masks for the citizens of the future. I hope someday I can go to a restaurant myself.

I do not know about change. But I know - I hope - my photography will be helpful when the people ask for change.



Sincerely,

Michael A. "Tony" Vaccaro

with son Frank Vaccaro


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