Intervista a Piero Marsili Libelli
Aggiornamento: 31 ott 2020
La ringraziamo molto per il tempo che ci sta dedicando e per essere qui con noi oggi su queste pagine.
Quando ha capito che la fotografia sarebbe stata al centro della sua vita, e come ha avuto inizio la sua carriera?
Vivevo a Milano a fine anni '70 da studente, tra i tanti lavori che facevo per guadagnare due soldi c'era quello del cameriere, del barista o il garzone da un fruttivendolo.
Ancora non avevo idea di cosa fare da grande pur frequentando il liceo artistico con ottimi voti.
Una sera un mio amico mi chiese di andare al cinema con lui e quella sera vidi il film di Antonioni, "Blow Up". Rimasi affascinato dalla figura di quel fotografo e forse fu proprio quella sera che capii cosa volevo fare nella vita. Questa visione è maturata dentro di me per diverso tempo.
A Milano vivevo nel quartiere di Brera, allora frequentato da artisti e intellettuali, pittori fotografi etc. Naturalmente non avevo i soldi per comprarmi una macchina fotografica, ma una notte dopo il lavoro come d'abitudine passavo a bere un bicchiere e a salutare gli amici nel famoso bar Dell'angolo, di cui ero un frequentatore abituale. Mentre sorseggiavo l'ultimo drink prima di andare a dormire la mia attenzione venne colta da un giapponese completamente ubriaco che dormiva sul divano del locale. Mentre lo osservavo mi accorsi che vicino a lui c'era una grossa borsa nera, tipica borsa da fotografia, e capii di avere di fronte la mia grande occasione. Sapevo che stavo per fare una brutta azione, ma fu più forte di me.
Finito il drink, con disinvoltura ma molto eccitato, presi la borsa e uscii. Una volta arrivato a casa aprii la borsa e vidi che c'era una macchina fotografica e alcuni accessori. Era una Canon, non ricordo di che tipo, ma era una macchina vera. Non sapevo nemmeno dove mettere le mani, diaframmi, tempi e tutte quelle cose che avevano le macchine analogiche. Insomma con l'aiuto di un amico fotografo e dei giornali specializzati iniziai a scattare e impadronirmi dello strumento. Da lì iniziò tutto.
Potrebbe raccontarci che atmosfera si viveva a Roma negli anni ’70, quando vi si trasferì per lavorare all’Espresso, e l’aria che si respirava al Beat ’72?
Da Milano mi trasferii a Roma. Erano gli anni '70 e fui assunto come fotografo all'Adnkronos, agenzia fotogiornalistica che si occupava di avvenimenti politici, perciò mi trovavo spesso in mezzo a manifestazioni, congressi, funerali di stato, che in quel periodo erano assai frequenti considerato che era il periodo degli anni di piombo.
Vivevo nel quartiere di Trastevere, in quel periodo frequentato da artisti, ladri, saltimbanchi etc. Conobbi dei giovani attori teatrali, stavano lavorando con Giancarlo Nanni ed Emanuela Kustermann, la diva delle cantine del teatro d'avanguardia e da quel momento entrai nell'ambiente di quel teatro, in cui avevo modo di incontrare e fotografare Carmelo Bene, Leo De Bernardinis, Memè Perlini, I Magazzini criminali, Giuliano Vasilicò, Roberto Benigni e tanti altri che mi chiesero di fotografare i loro spettacoli. Così iniziai a collaborare per L'Espresso fornendogli le fotografie del teatro dell'avanguardia teatrale romana.
Era una bellissima atmosfera, una rivoluzione culturale, ci sentivamo tutti liberi di fare e dire ciò che più ci piaceva. Il culmine di questo periodo lo vissi quando il Beat '72 propose di fare il primo festival dei poeti a Castel Porziano, dove invitò tutta la beat generation americana, da Allen Ginsberg, William Burroughs, Ferlinghetti, John Giorno, Gregory Corso e tanti altri. Fu straordinario vedere questi miti, feci un bellissimo lavoro. Poi diventai amico di Michelangelo Antonioni, ma questa è un altra storia.
Potrebbe descrivere la performance fotografico-teatrale “la Camera Chiara” da lei ideata e proposta diverse volte a Roma e in varie città d'Europa negli scorsi anni? Pensa che ci sarà occasione di rivederla nel prossimo futuro?
Arriviamo alla "Camera chiara". Non avendo spazi per una camera oscura ero costretto a sviluppare e stampare in bagno, in cucina o in qualche sgabuzzino. Per molti di noi era così, con costrizione e sacrificio. Il mio sogno era di avere un giorno una grande e comoda camera oscura. Da qui nacque l'idea di quella che poi chiamai "La camera chiara" (da Roland Barthes): una grande camera oscura che potesse ospitare anche un pubblico. In questo modo la fotografia avrebbe avuto un "odore". Un giorno mi chiamò l'Arci di Roma chiedendomi se avevo un idea per l'inaugurazione di un grande spazio culturale, e proposi l'idea della camera oscura. Erano gli anni '80, in quel periodo si parlava molto dell'Irlanda del nord, di Belfast, di Bobby Sand, della guerriglia urbana, dell'IRA , perciò l'idea maturò così: un fotografo sarebbe dovuto partire per un reportage, ed una volta tornato e avrebbe invitato il pubblico nella sua camera oscura per partecipare allo sviluppo del lavoro svolto, finalmente nella grande camera oscura.
Il titolo era appunto "Belfast A/R, andata ritorno". Proposi di andare a Belfast a fotografare la guerriglia urbana, i funerali di Bobby Sand, gli scontri tra cattolici e protestanti e l'esercito inglese in mezzo.
La performance avrebbe dovuto essere rappresentata adesso il 17 Ottobre a Todi in occasione di un festival della fotografia contemporanea, ma è stata rimandata a Maggio per l'emergenza covid. Adesso non è il momento di fare programmi, ma spero si possa vedere presto.
Questo è un vecchio video, ma può dare l'idea:
Cosa l'ha spinta a trasferirsi a Lecce, e cosa rappresenta per lei la Puglia?
Vivo a Lecce da qualche anno con mia moglie, Catia Dottori, che è una nota costumista del cinema. Abbiamo deciso di lasciare Roma per vari motivi, ma soprattutto perché in Puglia vive mia figlia. Io sono toscano e mia moglie è genovese, perciò niente ci lega alla Puglia, eccetto nostra figlia ed il mio amore per il sud.
Ho l'impressione che per gran parte della sua carriera abbia scelto di raccontare ciò che avveniva di fronte all'obiettivo, interpretandolo, e che negli ultimi anni il suo approccio al modo di creare l'immagine sia cambiato. Nella serie per il calendario “Tra Visioni e Paradossi” realizzato nel 2015 per il progetto In-Culture, sostenuto dal Miur e finalizzato allo studio e alla valorizzazione del patrimonio culturale minore della Grecìa salentina, le immagini sono studiate a tavolino come si fa nel cinema. C'è stato un evento che ha fatto da spartiacque nel suo modo di lavorare? Forse il rapporto con il teatro ha influenzato il suo modo di fare fotografia?
Il fotografare riflette la mente del fotografo, la realtà è a 360 gradi. Tu scegli il tuo "angolo", il tuo punto di vista e l'interpretazione che vuoi dare. Il clic! alla fine è l'ultima cosa. Succede spesso prima di partire per dove si sa che qualcosa sta accadendo o sta per accadere che si parta con un'idea, ma poi la realtà può darti molto di più. Viceversa, se quello che vedi non è "visibile", se non è convincente per rendere un'idea, devi essere pronto a stravolgere tutto senza cambiare la realtà. Il calendario che citi è un lavoro fatto a tavolino, come nel cinema. Vedi le locations e pensi cosa potrà accadere quando andrai a fotografare. Per me non esiste una fotografia senza l'essere umano, e l'immaginazione lavora su questo. Credo che tutti si evolvano nella vita, e così è stato anche per il mio modo di fotografare, ma la ricerca costante è sempre quella di raccontare tutto in una sola foto.
Che importanza dà all'attrezzatura fotografica, e cosa utilizza attualmente?
Non sono mai stato un gran tecnico, quindi l'importanza della mia attrezzatura fotografica è marginale, l'importante è che sia adeguata ad un buon livello professionale.
Che consigli darebbe a chi sta muovendo i primi passi nel mondo della fotografia ed è alla ricerca di un proprio stile?
Non ho molti consigli da dare a chi sta muovendo i primi passi nella fotografia, ma se è alla ricerca di un suo stile gli consiglio di confrontarsi sempre con ciò che fanno i fotografi a lui più vicini, di usare la testa, viaggiare, non fermarsi ai complimenti di amici o delle mamme, essere umili e sapere che in mano hai un arma per far vedere al modo il tuo pensiero.
Come ha affrontato questo periodo complicato in cui l’umanità intera si è riscoperta fragile e destabilizzata? Quali compiti e responsabilità ritiene che abbia l'arte in un simile momento di crisi?
Il periodo che abbiamo passato (ma purtroppo ancora ci siamo dentro fino collo) l'ho trascorso come tutti credo. Stando a casa e rivedere molte cose, per esempio l'archivio. Ho cercato di capire come rappresentare questo periodo, ma bastava guardare sui social. Vedevi tutto il mondo, più o meno uguale, non c'era nemmeno bisogno di uscire di casa. Mi sono state chieste anche delle fotografie su questo periodo e non sono riuscito a trovare qualcosa che potesse essere racchiuso tutto in una sola foto. Solo questo sono riuscito a pensare.
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