Agli Uffizi una riflessione sul rapporto fra arte, turismo e riproduzione fotografica
Agli Uffizi, per la precisione nella sala 56 del primo piano, fino al 24/02/2019, sarà proiettatto il progetto di Giacomo Zaganelli intitolato Grand Tourismo, una serie di tre video (Illusion, Everywhere but nowhere e Uffizi Oggi) per riflettere sul rapporto fra smartphone, turismo di massa ed arte.
Dal comunicato stampa ufficiale:
Zaganelli sollecita una riflessione sull’identità del turismo attuale e in particolare sulla consuetudine a filtrare l’osservazione dell’opera d’arte attraverso l’obiettivo di smartphone, telecamere, macchine fotografiche.
Uffizi Oggi, girato dall’artista in una domenica di ordinaria apertura al pubblico, si qualifica come una rivisitazione personale e un osservatorio non convenzionale su ciò che avviene quotidianamente di fronte ai capolavori di Botticelli conosciuti in tutto il mondo come la Nascita di Venere e la Primavera.
Proiettato insieme a Illusion e Everywhere but nowhere all’interno del percorso museale – nel punto di snodo del primo piano – si propone come una sosta offerta al visitatore il quale si troverà a rimeditare sull’esperienza appena vissuta da una prospettiva volta a innescare considerazioni inattese in un pubblico trasversale per età e provenienza.
L'opera riprende il neologismo coniato da Richard Lassels nell'opera Italian Voyage, pubblicata nel 1670: "Grand Tour" divenne il termine utilizzato nel Settecento dalle famiglie della aristocrazia nordeuropea per indicare quel viaggio in Italia che era una tappa essenziale nella formazione culturale di ogni giovane di buona famiglia. Era fondamentale per conoscere le radici della civiltà europea e per toccare con mano quello di cui aveva solamente potuto studiare sui libri.
A quel tempo la fotografia non esisteva, ed i capolavori pittorici o architettonici bisognava vederli dal vivo. Chi se lo poteva permettere intraprendeva un lungo viaggio in Italia da cui tornava di solito con taccuini pieni di schizzi e acquerelli se sapeva dipingere, o con stampe acquistate in Italia se poteva permetterselo. Molti architetti di quel periodo infatti, fra cui Piranesi, si dedicarono all'attività di incisori perché vi era un fiorente commercio di immagini di vedute riguardanti architetture, rovine e paesaggi (l'edilizia invece era bloccata da una crisi che perdurava da anni, soprattutto a Roma).
Si può dire che all'epoca l'incisione sopperisse ad una necessità concreta del turista, quella di portarsi a casa un ricordo delle bellezze Bel Paese. Ma il fiorente mercato delle incisioni fu soppiantato dall'avvento della fotografia.
A fine Ottocento infatti una delle attività più comuni e redditizie per gli studi fotografici era la realizzazione di riproduzioni di dipinti, monumenti ed architetture, non solamente ad uso dei turisti ma anche degli studiosi di belle arti di ogni tipo.
Oggi è sufficiente tirar fuori dalla tasca il proprio smartphone per vedere istantaneamente architetture ed opere di qualsiasi tipo situate in una qualsiasi parte del globo, e non riusciamo ad immaginare quale novità possa essere stata la fotografia per chi, solo un secolo e mezzo fa, aveva la possibilità di conoscere il Colosseo o la Fontana di Trevi solamente attraverso le rappresentazioni imprecise e talvolta fantasiose delle incisioni.
A partire dal 1852, con gli Alinari ed il loro metodo di rappresentazione, nacque un fiorente mercato di fotografia di architettura.
Grazie alle immagini di Alinari si forniranno agli studiosi le basi per spiegare le argomentazioni storico-critiche delle opere nelle università. Le foto di architettura degli Alinari erano caratterizzate da un tipico stile definibile come “formale”. La ripresa era infatti eseguita secondo i canoni della veduta prospettica rinascimentale. Si trattava spesso di inquadrature frontali rialzate (il punto di vista era sempre alto, e la linea d'orizzonte attraversava sempre mediamente l'immagine). Rigorosamente eseguita la foto doveva risultare descrittiva. Per questo motivo l'oggetto architettonico doveva apparire isolato, come una specie di scultura, scissa dal contesto urbano di cui faceva parte. L'immagine doveva essere il più possibile priva di ombre, per consentire la massima leggibilità dei particolari. Si trattava di fotografie paragonabili nello spirito alle riproduzioni di opere d'arte, dal momento che lo scopo era di potere essere utilizzate a fini didattici, divulgativi e documentativi. (Paola Campanella).
Considerate queste premesse storiche, il lavoro Grand Tourismo di Zaganelli, molto critico nei confronti del fotofonino e del rapporto attuale del turista con l'opera d'arte, (secondo l'interpretazione autentica dello stesso autore), va visto, secondo chi vi scrive, in un'altra ottica.
Lo smartphone è infatti solamente l'ultimo atto di una tradizione, di una esigenza tramandata di generazione in generazione da un turista all'altro, l'incarnazione moderna di un romantico gesto d'amore verso ciò che il viaggiatore ammira e che vorrebbe portare a casa con sé.
Fotografare l'opera d'arte, è vero, è una superstizione. E' un rito di cui non conosciamo più il senso ne l'origine, slegato da una esigenza concreta. Che senso può avere fotografare la Venere di Botticelli con lo smartphone, quando la si può ammirare comodamente da casa a due gigapixel ad un livello di dettaglio a cui nessun turista al mondo l'ha mai potuta osservare prima d'ora nella storia dell'umanità?
E' semplicemente l'incarnazione moderna di un atto rituale comune ad ogni turista dall'inizio dei tempi, il quale vuole ricordare a sé stesso, e far sapere agli altri "io sono stato qui, ho visto questo capolavoro, un simbolo di cui finora ho solamente sentito i racconti o letto sui libri".
In quest'ottica la foto con lo smartphone alla Venere di Botticelli, o il selfie davanti al Colosseo o alla Fontana di Trevi assumono tutt'altro significato. Servono a far sapere agli amici a casa che si è arrivati alla meta, sono un simbolo come la conchiglia che i pellegrini riportavano al ritorno dal Cammino di Santiago, un modo per lasciare una traccia del proprio passaggio in maniera certamente se vogliamo meno invasiva di quella dei pellegrini dell'antichità, i quali avevano l'abitudine irrispettosa di incidere il proprio nome e la data sulle colonne del pronao di San Pietro.
Zaganelli si domanda perché all’Alte Pinakothek di Monaco nessuno fotografa il Compianto sul Cristo Morto di Botticelli. Si tratta del medesimo Botticelli autore della Venere degli Uffizi, ma quel dipinto non ha alcun valore per le masse poiché non rappresenta un’icona.
La risposta è tuttavia implicita nella considerazione stessa. Nessuno fotografa il Compianto sul Cristo Morto perché questa non è un'icona, ed i riti apotropaici si celebrano dinanzi alle icone. Le foto che noi tutti scattiamo dinanzi ad un monumento non sono fotografie scattate con intenti documentari o conoscitivi, bensì un rito.
Viviamo ormai nel pieno dell'epoca dell'opera d'arte nella sua riproducibilità tecnica (così si intitola il saggio di W. Benjamin, che nel 1936 previde le tematiche attuali) e vedere dal vivo la Venere di Botticelli non ha più senso di quanto non lo possa avere vedere dal vivo i Rolling Stones: probabilmente potremmo apprezzare meglio la loro musica riprodotta dall'impianto stereo nel salotto di casa nostra piuttosto che da un posto affollato all'inverosimile e con una pessima acustica come il Circo Massimo, ma ad un concerto ci si va per raccontare a sé stessi e agli altri di esserci stati, per portare a casa una foto scattata con il cellulare di un pezzetto di palco o la registrazione del brano che ci piace tanto. Non c'è nulla di male in questo, forse l'arte sta cominciando a scoprire anche negli altri settori quel che nella musica, con i concerti live negli stadi, ha scoperto da tempo: di essere anche un grande rituale di massa.
Dichiara il Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, che insieme a Chiara Toti ha curato la mostra:
«Con le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni, e in particolare dal momento dell’arrivo della fotografia digitale a portata di mano, la fruizione del museo è fortemente cambiata. La mole di riproduzioni delle opere che conserviamo cresce in maniera esponenziale modificandone la percezione, e anche il comportamento stesso del viaggiatore, collezionista di immagini fatte da sé, è oramai fondamentalmente alterato. Partendo da una riflessione interna agli Uffizi e incentrata sulla sua sala più frequentata, quella dei capolavori di Botticelli, attraverso l’interpretazione di Giacomo Zaganelli abbiamo voluto porre l’attenzione su un fenomeno che, mutando la relazione tra spettatore e opera d’arte, implica un ripensamento delle funzioni del museo stesso».
Ricordiamo che una delle novità fondamentali introdotte dal decreto ArtBonus voluta dal ministro Franceschini è proprio quella che prevede la totale libertà di riproduzione delle opere d'arte presenti nei musei con qualsiasi mezzo fotografico, ed il permesso di diffusione a bassa risoluzione, una scelta che ovviamente mira ad adeguare la normativa alle esigenze attuali di fruizione dei musei, luoghi dove si reca ormai non per necessità, ma in pellegrinaggio, per celebrare il rito dell'incontro con l'arte (e forse è sempre stato così):
SEMPLIFICAZIONI BENI CULTURALI
FOTO LIBERE NEI MUSEI, PAESAGGIO, ARCHIVI
(Misure urgenti per la semplificazione in materia di beni culturali e paesaggistici)
Sono libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:
1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né l’uso di stativi o treppiedi;
2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte dall’utente se non, eventualmente, a bassa risoluzione digitale”.