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Gianluca Laurentini

Abbiamo parlato con Andrea Jemolo del suo progetto Walls: Le mura di Roma, ecco a voi l'intervis


Della mostra di Andrea Jemolo a Roma vi abbiamo già parlato sulle pagine del nostro blog in occasione dell’inaugurazione, ma oggi abbiamo la possibilità di offrirvi in esclusiva questa intervista nata durante una piacevole chiacchierata proprio con l’autore che ci ha aperto le porte della sua casa. Spero che apprezziate questo scambio di battute su temi diversi della fotografia e con tanti spunti interessanti.

Benvenuto Andrea sul nostro blog di fotografia, se ti fa piacere partirei subito con una domanda sulla tua mostra: “Walls. Le mura di Roma”, che è ospitata fino al 9 settembre all’interno del museo dell’Ara Pacis: come è nata l’idea di fare una mostra sulle mura della città eterna?


Si dice sempre che i cittadini di Roma sottovalutino l’importanza delle mura. Ci si vive e ci si passa accanto, ma non vengono considerate come un bene culturale di primo piano. Io non ho mai avuto nella mia vita questo atteggiamento e le mura di Roma per me sono sempre state qualcosa di molto importante che mi dava anche la sensazione del trascorrere del tempo durante le varie stagioni a seconda del cambio di luce. Circa tre anni fa proposi un lavoro di questo tipo al sovrintendente delle belle arti del Comune di Roma Claudio Parisi Presicce, ma per molto tempo di questo progetto non se ne fece nulla ed anzi stavamo facendo altre cose insieme, poi a luglio dello scorso anno mi telefonò chiedendomi di mettere al primo posto come lavoro questo sulle mura.


Ammetto che essendo di Roma vedo le mura tutti i giorni e spesso quando mi fermo a guardarle scopro piccoli dettagli che non avevo mai visto in precedenza. Nel tuo cercare di carpire ogni piccolo aspetto delle mura c’è stato qualcosa che ti ha veramente sorpreso?


Avendo la possibilità di visitare le mura con tutti i permessi della sovrintendenza ho potuto vedere le mura da privilegiato e sono stato attento in questa mostra a fotografare in luoghi non comuni che senza i permessi non è possibile vedere, con la speranza che diventino accessibili a tutti in breve tempo. Ho notato molti particolari divertenti dovuti alla stratificazione straordinaria che ha la nostra città, ad esempio una volta stampato un ingrandimento di una foto scattata da uno dei torrioni di Porta San Sebastiano mi sono accorto che come architrave di una finestra era stato usato un bassorilievo di età romana. Un pezzo bellissimo.



Durante la visita alla tua mostra mi ha molto colpito il fatto che ci fosse un’omogeneità di condizioni atmosferiche fra le varie fotografie, come se le foto fossero state scattate tutte nello stesso momento. Cieli nuvolosi che entrano a far parte della mostra tanto quanto le mura. Quanto tempo ci è voluto per scattare le fotografie della mostra?


Dopo i primi sopralluoghi ho iniziato a scattare nel novembre del 2017 ed ho finito nei primi giorni di gennaio del 2018.

Il tipo di fotografia che faccio io è un po’ il contrario del “cogliere l’attimo fuggente” di Cartier-Bresson e molto più vicino, come diceva Gabriele Basilico, al “tempo lento”. Si tratta quindi di fotografia programmata in ogni suo aspetto. Ho scelto di fotografare con un cielo grigio, alcune volte plumbeo, perché la neutralità cromatica che mi dava questa condizione permetteva alla materia del monumento, che è anch’esso cromaticamente omogeneo, di esprimere tutta la sua forza e potenza.


Quale attrezzatura hai usato?


Siccome è un lavoro a cui tenevo sono tornato alla mia Sinar con lastre 10x12.


È stata una scelta fatta solo per la mostra oppure è la tua attrezzatura abituale? Normalmente ti capita di usare anche il digitale?


Certo, mi capita normalmente di usare il digitale. Usare la Sinar è possibile solo quando ci sono lavori che non hanno tempi di consegna molto stretti e a cui tieni molto.


Quindi la condizione è stata dettata sia dalla libertà che dal tempo avuti per questo progetto?


Esatto.



Nella mostra ci sono ben 77 foto di grande formato. Tante, considerando soprattutto la staticità del soggetto, eppure la mostra sembra scorrere veloce e si arriva all’uscita senza essersi minimamente annoiati. È rimasta fuori dall’esposizione qualche fotografia che in una eventuale nuova esposizione ti piacerebbe aggiungere?


Sì, delle fotografie sono rimaste fuori. Diciamo che il lavoro sarà stato su un centinaio di scatti, tutti della medesima qualità, poi abbiamo fatto una scelta rispetto allo spazio. Solo la sera prima dell’inaugurazione ho deciso di levarne sette perché mi dava la sensazione che fossero troppo affollate. Forse ce n’era una che spiegava bene un momento del rapporto tra le mura e l’acquedotto che abbiamo dovuto togliere, però non c’erano altre soluzioni.


Sono molto interessanti anche le fotografie storiche del fondo Parker e quelle dell’archivio Fotografico del Museo di Roma esposte in una sezione apposita. Immagino che ci sia stato un lavoro di selezione enorme, hai scelto tu personalmente quali esporre?


Ho suggerito io l’accostamento perché questa mostra è la prima documentazione integrale delle mura dal 1864 che Parker fece con i grandi fotografi di quel periodo. Il grande lavoro di selezione è stato fatto sia dalle curatrici Orietta Agostini e Federica Pierani che da una loro collaboratrice, Lucia Spagnoli, perché queste fotografie fanno parte dal gabinetto fotografico comunale di Palazzo Braschi. E’ molto bello questo confronto di un diverso rapporto con la città che viene fuori.


Considerando che nel 1864 Roma non solo non era ancora la Capitale d’Italia, ma era ancora sotto il potere Papale fa impressione che siano passati tanti anni prima che qualcuno si occupasse delle mura dal punto di vista fotografico.


Certo. Se ne sono occupati in passato forse, ma mai integralmente come nel caso del loro e del mio lavoro.


Stai già lavorando ad un nuovo progetto?


Ci sono stati dei progetti sospesi per fare questa mostra che vorrei riprendere.


Oggi il mondo della fotografia di massa sembra virare verso la fotografia “usa e getta”. Fotografie scattate sul momento con lo smartphone fatte spesso solo per la condivisione immediata e che hanno una vita sui social stimata in 8 ore prima di finire nell’oblio. Nello stesso tempo rimane attivo uno zoccolo duro di giovani che ogni anno si appassionano alla fotografia e studiano i grandi maestri, sperimentano, si confrontano e vanno a vedere le mostre fotografiche. Cosa ne pensi di questo? Son due mondi che si incontreranno o rimarranno separati?


Sicuramente rimarrà questo zoccolo duro di utenti che vogliono di più dalle proprio foto. D’altra parte se ci si pensa è sempre stato così in fondo: quando ho iniziato quarant’anni fa venivano fatti milioni di foto con le macchine Kodak, si scolorivano e si buttavano via. C’era poi un’altra parte che rappresentava invece la professione e la parte autoriale della fotografia.

Nel reportage ad esempio la fotografia di Gheddafi catturato ed ucciso è stata fatta con uno smartphone e rimarrà quella. Quindi lo smartphone va inserito fra gli strumenti fotografici.


Vorrei farti una domanda che ho già fatto al fotografo di viaggio Roberto Moiola, tu puoi darci un ulteriore punto di vista: essere originali fotografando una città è un’arte difficile, pensi che ci sia ancora spazio per essere innovativi in questo campo?


Secondo me il problema è che prima di fotografare bisogna avere un progetto e che questo progetto si depositi, si stratifichi e si arricchisca nel cervello del fotografo che dovrà avere ben chiaro questo progetto. Questo vale per qualsiasi progetto fotografico ed anche quello delle città, che non sarà un tema che si esaurisce. Penso che i fotografi più giovani dovrebbero prendersi più tempo nel pensare, nel guardare e magari stare un pochino meno al computer a guardare i lavori degli altri.


Parlando di autori: c’è un fotografo che ti piacerebbe suggerire ai nostri lettori? Qualcuno che ti ha colpito con la sua opera e che pensi che dovrebbe essere approfondito dal nostro pubblico.


I due fotografi più importanti da trenta anni a questa parte sono Andreas Gursky e Sugimoto. Sento molto l’influenza della scuola di Dusseldorf e quella di Basilico e mi piace Marco Introini.


Grazie per averci dedicato il tuo tempo Andrea.


Grazie a voi


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