La fotografia e le lacrime nella pioggia
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»
(Rutger Hauer/Roy Batty)
«Tutto ciò che siamo è polvere nel vento»
Qualche mese fa è uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo Blade Runner 2049, sequel del capolavoro del 1982.
Concordo a pieno con il commento espresso da Adam Epstein su Quartz: «con il prezzo di un biglietto di cinema si può avere accesso alla più gagliarda esposizione artistica del fine settimana, realizzata dal regista Denis Villeneuve e dal suo leggendario direttore della fotografia, Roger Deakins. Ogni scena e pezzo di set è un’opera visuale, pieno di tinte bizzarre e luci ipnotizzanti».
Ma Blade Runner (sia l’originale che il sequel) non è solamente un film dalla fotografia eccezionale.
Blade Runner, è (fra le altre cose) un film sulla fotografia. Quasi un trattato filosofico sull'essenza profonda del nostro medium preferito.
Gli androidi, che sono uno specchio allegorico della condizione umana e della nostra consapevolezza di essere mortali, adorano le fotografie. Si potrebbe dire che ne sono ossessionati, in quanto prova tangibile dei loro ricordi. Ricordi che come ben sa chi ha visto il film del 1982 (e spero lo abbiate visto tutti) sono virtuali, ma che sono anche l’unica cosa che li fa sentire umani, e che li rende umani.
In entrambi i film una foto è fondamentale per lo sviluppo di una indagine e della trama, ed entrambi i film iniziano con l’inquadratura di un occhio, l’occhio di chi ha visto “cose che voi umani non potreste immaginarvi” ed i famosi ricordi che “andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”.
E come viene spiegato da uno dei protagonisti del sequel, andranno perdute come lacrime nella pioggia anche tutte le foto dell’umanità, nel grande blackout del 2022 (“mia mamma rimpiange ancora le foto di quando ero bambino”). Sopravvivrà solo il cartaceo, a cui nessuno fino ad allora aveva dato grande importanza.
Troppo spesso trascuriamo un elemento fondamentale: la fotografia, come gran parte delle arti, è nata per ricordare. È nata per permetterci di ricordare e di essere ricordati.
Da quando l’uomo ha tracciato i primi segni nelle grotte di Lescaux ha sentito il desiderio di trasmettere ai suoi simili ciò che aveva visto e vissuto, affinché i suoi ricordi non andassero persi.
E se allarghiamo il concetto di fotografia, cominciandola a definire come “arte visiva finalizzata a perpetuare il ricordo di ciò che i nostri occhi hanno visto”, allora la fotografia stessa non può essere nata nel 1827 con una veduta sfocata dalla finestra dello studio di Niepce (e che per inciso, è la foto che avrete riconosciuto nel logo di questo blog).
La fotografia è nata con le prime pitture rupestri, si è evoluta sotto gli etruschi, i greci e i romani, diventando mosaico bizantino e miniatura benedettina. Poi è arrivato il Rinascimento, con Leonardo, Caravaggio, Vermeer e Tintoretto, gli strumenti ottici, la lente e la camera obscura; in quel periodo la fotografia è diventata sempre più realistica e prossima al vero, seppure ancora non esistessero supporti fotosensibili diversi dall’occhio, il pennello e la mano del pittore.
L’ultimo step di questa lunga e millenaria evoluzione è stata l’invenzione del supporto fotosensibile, che ha reso immediato il procedimento di ripresa, e sempre più realistica la riproduzione. Il supporto, prima basato su gelatine animali e alogenuri d’argento, al volgere del millennio fu sostituito da un sensore capace di trasformare le informazioni in bit.
Tuttavia, che ci crediate o no, si tratta sempre della medesima arte visiva. Chiamatela graffito, mosaico, affresco, pittura ad olio o fotografia, si tratta di un’unica arte visiva attraverso cui l’uomo ha sempre desiderato trasmettere ciò che ha visto o immaginato, consapevole che i suoi ricordi sarebbero altrimenti andati persi “come lacrime nella pioggia”.
Semmai è la pittura non figurativa, nata dopo la cosiddetta invenzione della fotografia, che può considerarsi un’arte nuova, separata e distinta da ciò che vi è stato prima. Lo strumento è lo stesso della pittura tradizionale, ma colori e pennelli non sono più utilizzati per raccontare ciò che l’uomo ha visto con i suoi occhi fuori di sé, bensì ciò che l’uomo ha visto con la sua mente dentro di sé.
La fotografia è nata a Lescaux e si è evoluta nei millenni fino ad incarnarsi nello smartphone che ciascuno di noi ha in tasca, lo strumento definitivo per catturare, salvare e condividere i nostri ricordi. Almeno fino al blackout del 2022.