Il World Press Photo Award e l'etica dietro alle immagini
Ricordate la scena del film "Salvador" di Oliver stone? Ci sono due reporter su una collina di cadaveri. Quello meno esperto si preoccupa solamente di quale ottica utilizzare per documentare la scena, l'altro invece, più navigato e con il mito di Robert Capa, si pone qualche scrupolo in più (non molti per la verità) e qualche dubbio sul ruolo del suo mestiere e della fotografia in generale.
Sono state rese pubbliche le foto vincitrici del World Press Photo Award, e come ogni anno è aperto il dibattito sulle scelte operate nel selezionare le foto vincitrici. La maggior parte delle foto premiate sono un pugno nello stomaco. Il primo premio è stato dato all'immagine che ritrae un giovane di 28 anni avvolto dalle fiamme mentre corre in un vicolo di Caracas, a causa di un bidone esploso durante gli scontri del 3 Maggio a Plaza Altamira. Il giovane riportano i giornali si è salvato, ma ha riportato ustioni sul 70% del corpo ed ha dovuto subire 42 operazioni, una cosa terrificante al solo pensiero. Il fotografo che era presente alla scena non è intervenuto se non per scattare, e probabilmente avrebbe potuto fare poco o nulla in una circostanza in genere, se non svolgere il suo lavoro al meglio per denunciare una scena di guerra ingiusta come tutte le guerre e per raccontare con l'immagine di una violenza estetizzata quanto possa fare schifo l'umanità quando ci si mette di impegno. L'immagine in questione tra l'altro non è originalissima, ha illustri precedenti di riferimento nell'immaginario collettivo, e proprio per questo funziona.
Evoca immagini come quella del vietcong giustiziato di Eddie Adams (vincitrice del Pulitzer nel 1968, o della bambina in fuga colpita dal napalm di Nick Ut (Saigon, 1972).
Ma richiama anche l'immagine del "burning monk" di Browne (Saigon 1961) o quella più prosaica della copertina di Wish You Were Here dei Pink Floyd (l'inconscio parla per immagini, e per l'inconscio poco importa che si tratti di finzione o realtà. Un uomo che brucia atterrisce e lascia sgomenti anche sulla copertina di un album).
Lo studente di 28 anni ritratto probabilmente non ha firmato alcuna liberatoria per mostrare il suo dolore sulle prime pagine di tutto il mondo, ma vi è finito ugualmente nel nome del diritto di cronaca, e questo lascia ulteriormente riflettere in un mondo ossessionato dai pezzi di carta quando si ha a che fare con immagini ben più innocue. La domanda che vi pongo, dalle pagine del nostro modesto blog di fotografia, (e non sono il primo a porla, è la stessa che si pone anche Oliver Stone in Salvador) è se sia etico premiare foto che estetizzano il dolore e la sofferenza altrui, anche se (si presume) lo si fa a scopo di denuncia. Lo stesso Eddie Adams, dopo aver vinto il Pulitzer per la foto del generale Loan e dell'esecuzione del Vietcong, scrisse: «Il generale uccise il Viet Cong; io uccisi il Generale con la mia macchina fotografica. Le immagini fotografiche sono le armi più potenti del mondo. La gente ci crede, ma le fotografie mentono, anche senza essere manipolate. Sono soltanto mezze verità.
Ciò che la fotografia non ha detto era: ‘che cosa avreste fatto voi se foste stati il Generale in quel momento, in quel posto e in quel giorno caldo, ed aveste catturato il cosiddetto cattivo dopo che avesse fatto fuori due o tre soldati americani?’ come fate a sapere che non avreste tirato il grilletto voi stessi? » Il generale dal canto suo raccontò di aver premuto il grilletto senza esitazione perché il vietcong giustiziato “[…] Non aveva l’uniforme. E io non riesco a rispettare un uomo che spara senza indossar l’uniforme. Perché è troppo comodo: ammazzi e non sei riconosciuto. Un nordvietnamita io lo rispetto perché è vestito da soldato come me, e quindi rischia come me. Ma un vietcong in borghese… […]”. Da un certo punto di vista, combattere senza divisa è assimilabile a ciò che fece Adams premendo il pulsante della sua fotocamera senza prendere posizione rispetto agli eventi, ma condannando il generale, o ciò che fa chiunque fotografi una persona che sta morendo invece di fermarsi per soccorrerla. Steve McCurry nel libro intervista a Gianni Riotta racconta di aver evitato di scattare decine di volte, quando lo scatto avrebbe messo a rischio in qualche modo la vita della persona ritratta. (Vi invitiamo ad approfondire la storia completa dietro alla storica immagine di Eddie Adams al seguente link: [https://www.google.it/amp/s/saramunari.blog/2015/03/10/storia-di-una-fotografia-esecuzione-del-prigioniero-1968-eddie-adams/amp/]). Essenzialmente per rendere etica l'esistenza stessa di premi come il World Press Photo dovremmo imparare ad osservare quelle immagini con la dovuta píetas, leggendo la storia dietro alle fotografie, ed avendone il dovuto rispetto e terrore.
Non so quanto questo avvenga quando il World Press Photo organizza il suo consueto tour mondiale, esponendo le immagini vincitrici tutte insieme e facendo pagare un biglietto di ingresso, o quando le immagini vincitrici vengono pubblicate in massa sui giornali di tutto il mondo senza raccontare adeguatamente la storia dietro ciascuna di esse. Senza la dovuta partecipazione emotiva da parte di chi osserva tali immagini il rischio è quello di assuefare le persone ad una violenza estetizzata, come accade d'altronde nei telegiornali ogni volta che propongono immagini dal fronte all'ora di pranzo. Forse non dovrebbero proprio esistere concorsi fotografici a premi per chi sta svolgendo solamente con impegno il proprio lavoro. Sono più che sufficienti riconoscimenti specifici in campo giornalistico, come il Pulitzer assegnato ad Adams.
Raccogliere le foto più efficaci dell'anno ed esporle a pagamento in una mostra itinerante è in qualche modo irrispettoso della storia e delle persone dietro ad ogni immagine e rende le foto stesse, ed il messaggio di chi le ha scattate, meno efficace.
Perché come ci ricorda Eddie Adams le fotografie (quando sono efficaci) sono uno strumento pericoloso, di cui avere terrore e rispetto.